Di blob in blob
Antonio Magrì
Il primo titolo - “Di Blob in Blob” - fa riferimento al fatto che nel libro vengono analizzati il Blob cinematografico del 1958 del regista americano Yeaworth ed il Blob televisivo di Ghezzi, nato originariamente proprio pensando al primo non solo dal punto di vista del contenuto ma proprio dell’organizzazione espressiva con cui giungere a questo nuovo contenuto e contenitore televisivo. I due testi, come da continuazione del titolo (“Analisi di semiotica comparata”), vengono comparati l’un l’altro. Più precisamente, viene fatto un raffronto tra i diversi modi possibili di usare sistemi semiotici quali la scrittura, la musica, il sonoro, ecc., che sia il mezzo cinematografico sia la televisione permettono di adoperare. Infatti, questi due mezzi, per la loro medesima natura o capacità di ospitare, sintetizzare (come direbbe Lotman) in maniera del tutto organica all’interno di sé mezzi e codici espressivi diversi da sé, come, appunto, la musica, la scrittura, ecc., fanno dei registi dei direttori d’orchestra, alle prese con l’organizzazione di più strumenti e stumentisti (fotografia-direttore della fotografia; scenografia-sceneggiatore; ecc.). I registi diventano dei perfetti artisti multimediali, in grado, insomma, di organizzare e concertare più livelli e mezzi espressivi in una sola opera.
Che c’entra il linguaggio del corpo?
Se si tiene conto che gli umani non producono soltanto parole e frasi, ma anche gesti, azioni, e li producono nel flusso continuo del movimento della vita, ci si accorge che ognuno di noi è il regista dei propri codici espressivi, verbali e non-verbali. Le frasi, le tonalità con cui le emettiamo, gli occhi ed i gesti, ecc., sono i linguaggi di cui dispone il nostro corpo e li organizziamo in maniera strategica in un tutto organico per esprimere anche una sola cosa, un solo concetto.
Per il parallelo semiotico che esiste tra la vita quotidiana ed il mondo dell'arte, l'introduzione è intitolata "Le arti agli arti", dove si chiede al lettore di disporsi in maniera tale da immaginare un disegno dell'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, il quale, però, al posto della testa abbia una cinepresa, al posto di una mano, o del braccio, un pennello, al posto dell’altro, invece, uno scalpello, e così via, fino a sostituire, insomma, a proprio piacimento tutte le sedi dei sensi con le "protesi" che di solito vengono usate nelle varie arti. In una visione interdisciplinare tra la semiotica, le neuroscienze e l'intelligenza artificiale.
Da cui l’immagine in copertina - che rimanda ad un paragrafo interno - intitolata "L'uomo nella macchina da presa", con evidente riferimento al film del 1929 di Vertov "L'uomo con la macchina della presa", da cui i blobbisti di Rai Tre dicono da sempre di discendere.
Attraverso un processo da foto-sintesi, il corpo e la macchina si fanno reciprocamente organici, in una nuova forma di intelligenza semi-artificiale. Il corpo del regista è in grado di pensare ed adoperare in corso d'opera i sistemi semiotici del mezzo in adozione, proprio alla stregua di quando usa quelli del suo stesso linguaggio del corpo, penetrando, attraverso un innesto di se stesso, all'interno del punto di vista della macchina da presa. Come dimostrano le analisi delle immagini di "Blob al G8".
Il libro è anche l’occasione per svelare come il cult movie “Blob” di Yeaworth, del 1958 - tra il fluido rosso “sovietico” e le figure che anticipano la pop-art - nella storia del cinema rappresenti, in una sorta di aporia, un vero e proprio manifesto ambientalista. Visto con il senno di oggi, infatti, il film americano, con il suo modo di finire, sembra aver anticipato di alcuni decenni i grandi dibattimenti mondiali sul tema dell’effetto serra, del surriscaldamento globale, soprattutto se si osserva come ammicca in maniera palese - in piena guerra fredda e mentre ancora si respira aria di maccartismo - ad una grande presa posizione del mondo scientifico di allora, da cui, appunto, dopo nascerà il ben più famoso Trattato di Kyoto.
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