ABROAD – I tropici sono davvero tristi? Note scherzose sulla semiotica brasiliana
Paolo Demuru, Istituto Italiano di Scienze Umane.
I tropici sono davvero tristi? Note scherzose sulla semiotica brasiliana.
San Paolo, ovvero, “il contrario del contrario del contrario del contrario”. Potrebbe ben sembrare una litania greimasiana, o un loop strutturalista “old style”. Eppure – per quanto ne si dica o ci si accanisca per rivendicarne la paternità teoretica – questa lucida definizione della megalopoli brasiliana non ha un briciolo di dna semiotico. La si deve invece ad uno dei più geniali musicisti brasiliani del vecchio e del nuovo secolo – lui sì, se proprio vogliamo giustificarci, semiologo in nuce: Caetano Veloso. Bahiano d’origine, quando si trasferì per la prima volta a San Paolo non ci capì niente (il che mi consola parecchio). Per chi fosse interessato, il titolo della canzone da cui è tratta la citazione è “Sampa” – così i paulistanos chiamano affettuosamente la loro città –, dall’album “Muito” del 1978. Da ovunque la si osservi, da ovunque la si provi ad afferrare, Sampa fugge, si piega, sfugge, si volge e capovolge. Un florilegio di contrari e di contraddizioni. Dalle fatiscenze dell’ex favela verticale São Vito all’abbondanza esotica del Mercado Municipal; dalla perpendicolarità dell’Avenida Paulista alle curve burle-marxiane del Parque Ibirapuera; dal traffico del Minhocão – letteralmente “lombricone”, una sopraelevata che attraversa il centro della città per 3 km e mezzo – all’atmosfera rilassata e quasi bucolica della Freguesia do Ô, nella Zona Norte, quartiere famoso per le sue “coxinhas”, sorta di polpettine cremose a base di farina di grano e brodo di gallina, ripiene di pollo sfilacciato e catupiry (tipico formaggio brasiliano), ottime per un aperitivo tardo-pomeridiano. Forse è proprio perché si nutre costantemente – coxinhas a parte – di questo humus relazionale che la semiotica tropicale gode di così buona salute, fuori e dentro l’università. L’ho capito ingenuamente da due cose: 1) le persone a cui mi è capitato di dire che faccio un dottorato in semiotica non hanno storto troppo il naso – al massimo hanno inarcato un po’ le sopracciglia; 2) nei casi più estremi, di fronte alla fatidica domanda “sì, ma che cos’è la semiotica?” me la sono sempre cavata senza mai sfoderare la mia infallibile risposta: “quello che fa Umberto Eco quando non scrive romanzi” – a cui in Italia segue di solito un “ah certo”, che esaurisce immediatamente argomento e argomentazioni, segno di un qualche intendimento, di una qualche compassione, o del fatto che non pare di buon tono ammettere pubblicamente di non sapere cosa faccia Umberto Eco quando non scrive romanzi. In Brasile, la semiotica si insegna nelle principali università del paese, a San Paolo, Rio, Recife, Salvador e in altre città ancora. Solo a San Paolo ci sono due corsi di dottorato, uno in Semiotica e linguistica alla USP (Universidade de São Paulo, per più dettagli: http://www.fflch.usp.br/dl/index.php/pos-graduacao/historico.html) e l’altro in Semiotica e Scienze della Comunicazione alla PUC (Pontificia Universidade Católica de São Paulo, http://www.pucsp.br/pos/cos/index.html), sedi rispettivamente del Grupo de Estudos Semióticos (http://www.fflch.usp.br/dl/semiotica/), gestito da Ivã Carlos Lopes e Waldir Beividas e del Centro de Pesquisas Sociossemióticas, diretto da Eric Landowski e Ana Claudia de Oliveira (http://www.pucsp.br/cps/pt-br/home/index.html), che riunisce ricercatori di entrambe le università. E non finisce qui (per una vasta serie di link semiotici, non solo brasiliani, consultare la pagina web http://www.fflch.usp.br/dl/semiotica/links/links1.html). Nel corso degli anni Il Brasile ha antropofagicamente digerito e rigurgitato – oltre al jazz, diluito nel samba e riemerso sotto forma di bossa nova – le principali tendenze semiotiche dell’emisfero nord: peirciana, greimasiana, post-greimasiana, tensiva, un po’ meno la semiotica cognitiva e la semiotica della cultura lotmaniana, nonostante il gusto brasiliano per le pratiche di confine (Oswald de Andrade e la pizza allo strogonoff ne sono un esempio lampante). Quando non insegnano o fanno ricerca, i semiologi brasiliani danno consulenze, offrono pranzi deliziosi a base di feijoada, costruiscono contrabbassi e scrivono versi e melodie. Ed ecco rispuntare l’ombra di Caetano Veloso. Non è un caso, infatti, che uno dei più fertili campi di studio della semiotica tropicale sia proprio la semiotica della canzone (si veda a questo proposito il lavoro di Luiz Tatit, semiotico-cantautore, che da anni sviluppa metodi e teorie a partire dall’analisi della musica brasiliana. Per chi volesse saperne di più: http://www.luiztatit.com.br/). Sono sbarcato a San Paolo per la prima volta nel 2006 per finire la mia tesi di laurea e ci sono tornato nel 2009, per iniziare quella di dottorato. Sono a casa da tre settimane e la saudade inizia già a farsi sentire. Il mio soggiorno è stato reso possibile dai finanziamenti dell’Istituto Italiano di Scienze Umane e dall’ospitalità della USP, Universidade de São Paulo – con cui ho attivato un accordo di co-tutela. Tra le palme del campus – una vera e propria foresta pluviale metropolitana, sicuramente tra i parchi più belli in città – riecheggia ancora il verbo di Lévi-Strauss, Bastide, Braudel e Ungaretti, che lì insegnarono negli anni trenta e quaranta del secolo scorso. Lontano dal traffico delle principali arterie cittadine, l’aria che si respira è buona e frizzante: ci si incontra per discutere testi classici e contemporanei, si legge e si studia insieme, si organizzano seminari e convegni. A patto di cedere all’ironia, i semiotici europei sono ricevuti con commovente affetto e calore. La mia ricerca indaga il processo storico di formazione e discorsivizzazione di ciò che oggi è internazionalmente riconosciuto come “lo stile brasiliano di giocare a calcio”. In teoria, uso la semiotica per fare storia della cultura e analizzare l’influenza del calcio nella produzione di forme stereotipiche della corporeità e nella definizione dei tratti distintivi dell’identità nazionale. In pratica, cerco di comprendere come e perché il Brasile sia diventato il paese ad aver vinto più mondiali. Tre sono i motivi che mi hanno spinto a scrivere una tesi di dottorato sull’argomento: 1) Garrincha; 2) lo scetticismo professionale nei confronti del motto inciso sul colletto della maglia della nazionale brasiliana: “nato per giocare a calcio” – sublimato una volta scoperto che i giocatori neri e mulatti dei primi del novecento venivano presi a botte per aver commesso falli presunti o inesistenti; 3) l’inaugurazione del Museu do Futebol a San Paolo, oggi il museo più visitato del Brasile. L’università pubblica in Brasile vive un buon momento. Nell’area metropolitana attorno a San Paolo il governo Lula ha aperto due nuovi campus federali, uno a Santo André, a sud, e l’altro a Guarulhos, vicino all’aeroporto internazionale. A chi volesse andarci per un periodo di studio consiglio di entrare in contatto con gli enti ospitanti e studiare bene bandi e applications (la burocrazia è ovunque un macigno), prendere lezioni di portoghese (il corso dell’ambasciata brasiliana a Roma è piuttosto conveniente e interessante) e, last but not least, comprare un paio d’infradito. A San Paolo non ci sono Copacabana e il Corcavado. Tuttavia, dal Memorial dell’America Latina (uno dei posti migliori per insultare Niemeyer, secondo un vecchio supplemento culturale della Folha de São Paulo) ai samba di Santo Amaro, ai cinema e alle librerie della Paulista, ai bar di Vila Madalena fino ai ristoranti giapponesi (il sushi a Sampa è quasi un piatto nazionale, almeno quanto la coxinha) e ai karaoke di Liberdade, si ha la sensazione di abitare una delle città più vivaci del pianeta. Il semiotico pronto a dimenticare le guide turistiche saprà ben perdersi in questo labirinto di segni – questo ho imparato dai miei amici e colleghi brasiliani. È giunta l’ora di rovesciare Lévi-Strauss: i tropici per la semiotica sono tutto fuorché tristi.
|
|